Su “Il Fatto Quotidiano” una bella intervista a Saverio Marconi

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Scritto da: Redazione • 31 Marzo 2025
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Su “Il Fatto Quotidiano” di ieri, una bella intervista a tutto campo di Alessandro Ferrucci a Saverio Marconi.
Ne approfittiamo per fare gli auguri a Saverio Marconi, che compie gli anni proprio domani.
(La foto è © Ignazio Marconi)

“Sono dislessico. Nel 1955, alle elementari, venivo inserito sotto la specifica ‘scemo’. Poi, in quarta elementare, pensano allo spettacolino di fine anno, ci tenevo tantissimo, desideravo partecipare, anche perché amavo il palco da quando a tre anni i miei genitori mi avevano regalato un teatrino. La risposta dei maestri fu netta: ‘No, non sai leggere’. Bocciato. Poi uno dei protagonisti si ammala. Insisto: ‘Posso?’. ‘Non sai…’. Presi in mano il foglio e finsi di leggere, in realtà sapevo tutte le parti a memoria. ‘Va bene, il ruolo è tuo’. L’anno dopo ero il protagonista”.

Saverio Marconi danza con le parole, recita con gli occhi e balla sulla sua storia. Lui è il papà del musical in stile Broadway: è lui ad aver portato in Italia gli spettacoli d’oltreoceano, ad aver legato al suo nome i maggiori successi al botteghino. Centinaia di migliaia, milioni di spettatori e un paio di generazioni che hanno scoperto la bellezza del palco vissuto in ogni colore dell’arte.

Cos’è il palco?
È esibizione. È l’esibizione a restituire felicità.

L’approvazione.
È importante, ma non è tutto: l’approvazione può fregarti.

Senza approvazione non c’è esibizione.
È vero, ma i complimenti ti bloccano. A me è andata così. Ha iniziato con il cinema e subito ha ottenuto successo.
Immediatamente riconosciuto e premiato; però in quegli anni ho girato pure film brutti; ma non era il mio mondo.

Perché?
Non posso stare fermo ad aspettare. E poi non sono stato assistito, consigliato, guidato.

Su cosa?
Magari di studiare, su come migliorarmi; nella mia carriera ho assistito alla crescita di vari attori: loro diventavano sempre più bravi, io no.

Chi?
Michele Placido.

Gian Maria Volonté.
No, lui è dio.

Ci ha recitato.
L’ho amato tantissimo, anche se questo amore non mi è stato immediatamente evidente.

Per cosa l’aveva confuso?
Siamo stati tre mesi sul set (Ogro di Pontecorvo); a Natale ci raggiungono le nostre compagne, quindi prendiamo due appartamenti. Dopo qualche giorno, io e Gian Maria restiamo soli, e visto che prendevamo la diaria mi propone di condividere una casa, in modo da risparmiare. Accetto: abbiamo convissuto quasi tre mesi, dalla mattina alla sera (silenzio)…

E…?
Un’ossessione. Non potevo andare da nessuna parte, chiedeva conto di ogni movimento: ‘Dove vai? Con chi? No, vengo anch’io’. Quindi a pranzo, a cena. Sempre!

Parlava di politica?
Certo, e lodava le Brigate Rosse.

Lei?
M’incazzavo: ‘Sono assassini!’. Insomma, una battaglia perenne. Fino a quando ho capito: stava recitando.

Cioè?
Nel film era l’adulto che proteggeva il ragazzo. Il ragazzo ero io. Tornati a Roma, il nostro rapporto è diventato totalmente altro: piangeva, smussava, non era così assillante. Un altro uomo.

Ossessione del ruolo.
In maniera sconvolgente; non sono mai stato in grado di vivere il lavoro in quel modo: perderei la testa. Perché Gian Maria metteva a rischio se stesso, viveva il ruolo 24 ore al giorno, senza alcuna difesa.

Ha visto o vissuto altri attori così intensi?
Come lui, nessuno. Eppure ho lavorato con grandissimi come Fernando Rey.

Lei che attore è? All’inizio estetico, dotato di grande energia… Bellezza.
Anche quella; ma i fratelli Taviani mi hanno chiamato per l’energia che esprimevo a teatro; ottenuto il successo, l’energia è andata via.

Appagato?
No, avevo paura di sbagliare, di non risultare abbastanza bello.
Avvolto dall’insicurezza. In maniera folle.

Ha girato di tutto: dal film dei Taviani alla commedia sexy con Carmen Russo.
(Ride) Il film con Carmen Russo è quello che mi ha permesso di guadagnare di più; però non mi sono spogliato, giusto qualche bacio, casto.

E la Russo?
Di una bellezza sconvolgente: entrare in camerino, quando si cambiava, mi suscitava qualche imbarazzo.

L’imbarazzo lo portava sul set?
No, me ne fregavo: pensavo alla paga.

I soldi sono un metro.
Avere successo è riuscire a vivere bene, pagare le bollette, ottenere quello che serve. Così quando mi hanno chiamato per Buona come il pane ho accettato. È il dovere di attore.

Pragmatico.
Ci sono due artisti che amo più degli altri: Fellini e Strehler. Chi sono oggi? Il primo è solo un aggettivo, “felliniano”; il secondo è il nome di un teatro.

Tutto evapora.
Il teatro ancora di più; degli spettacoli di Strehler non ci sono video in grado di trasmettere la reale forza e bellezza.

Come mai ha smesso con il lavoro di attore?
Non avevo più voglia di aspettare.

Si sentiva in difficoltà con i colleghi?
So bene quanto valgo, sia in positivo che in negativo.

Prego.
In positivo: ho una bella faccia, interessante; in negativo: la superficialità; (cambia tono) ho recitato per i grandissimi.

Dicevamo, Gillo Pontecorvo.
(Sorride) Un rompipalle; in una scena finale c’è Gian Maria che doveva solo oscillare la testa per esprimere un “sì” o un “no”. Quel ciak Pontecorvo lo avrà fatto ripetere una quarantina di volte, con Volonté che oramai rideva disperato e tutti gli altri attori addormentati ai bordi del set.

Pignolo.
Per Pontecorvo la scena doveva durare esattamente 36 secondi: 35 era sbagliata.

Pasquale Squitieri?
A parte la polemica politica, era un bastian contrario; quando mi ha chiamato per il suo film,
tutti ad allarmarmi: ‘Attento, caratteraccio: urla, disprezza gli attori’. Mentre con me è stato carinissimo.

Garinei e Giovannini.
Il mio primo lavoro teatrale l’ho ottenuto in uno spettacolo prodotto da loro: a Natale arrivavano con i pacchi doni, e dentro c’erano le meraviglie enogastronomiche. Devo tutto a Garinei, è stato lui a sdoganarmi.

Come?
Prese al Sistina il mio adattamento de La cage aux folles (“Il vizietto”) senza neanche aspettare il debutto, senza neanche vederlo.

Fiducia totale.
Sono arrivato a portare al Sistina tre spettacoli in un solo anno.

Come nasce questa sua seconda vita?
Anche quando ero impegnato da attore, desideravo sempre ballare e cantare. Volevo il musical. Così prendevo lezioni di danza e canto (pausa); con il canto non va bene, sono stonatissimo, tanto che nel primo spettacolo musical ero in playback.

Ha fondato la Compagnia della Rancia.
Grazie ai soldi guadagnati con un film che è andato malissimo, Il ragazzo di Ebalus (1984).

In Italia, per il musical, c’è un prima e un dopo Saverio Marconi.
Siamo stati i primi a portare nel nostro Paese le grandi produzioni statunitensi, tradotte.

Centinaia di migliaia di spettatori.
In alcuni casi anche un paio di milioni; ma il problema, in Italia, è che non riusciamo a stare fermi, non concepiamo la stanzialità come a Londra o New York e adesso pure la Spagna.

Chi è il regista?
Colui che capisce il nocciolo dello spettacolo.

Rispetto agli attori?
Sono cattivissimo.

Senza se…
Gli attori sono coloro che riescono a realizzare il mio spettacolo.
Conta quello.
Solo quello.

Non guarda in faccia a nessuno.
Solo spettacolo. Se capisco che lo spettacolo non c’è, lascio.

È successo spesso?
Due o tre volte.

Caccia pure gli attori?
Se serve.

Ha fatto piangere? (Cambia tono)
Eccome!

Si pente?
Mai. Le reprimende non nascono dalla cattiveria; però gli attori vanno capiti, non li tratto tutti alla stessa maniera: con alcuni va bene urlare, con altri ho maggiore comprensione.

Deve portare la nave in porto.
Controllo tutto: se sbagliano le luci, la fonica, i costumi. Tutto. E devo avvertire l’anima. L’anima è fondamentale.
Il nostro non è un lavoro normale.

Non le manca il palco?
Ho voglia di raccontare, non di dimostrare o di esibirmi.

L’attore che porta nel cuore.
Tanti, ma soprattutto Manuel Frattini (è morto nel 2019, ndr): lui è stato un esempio per tutto e lo ritenevo mio figlio. Io che non ne ho.

Esempio di cosa?
Di voglia, di volontà: all’inizio non era così bravo, lo è diventato con una forza mai vista, tanto da conquistare la vetta del musical. Così l’ho sempre coinvolto.

Gli attori l’hanno ossessionata per ottenere ruoli?
C’è un’attrice che mi ha fatto telefonare da chiunque. Da chiunque. Non l’ho mai presa, solo una volta perché il ruolo era perfetto; (pausa) è un continuo di sollecitazioni.

Quindi non solo Haber è così.
Haber con me è stato scortese: al tempo in cui recitavo, ci incrociamo a cena, mi vede e senza neanche salutare alza il tono in protesta: ‘Ma ora i film li fai solo tu?’. A quel tempo non si perdeva una prima teatrale.

Cosa si rimprovera rispetto alla sua carriera?
‘Rimprovera’ non mi piace.

Perché?
Sono contento, mi sono impegnato al massimo, di più impossibile e in totale libertà.

Senza rinunce.
Alcuna; se mi dicevano ‘niente vacanze, devi girare un film’, rispondevo ‘benissimo’.

Che manie ha?
La mia scrivania è irrimediabilmente disordinata, mentre le medicine, che devo prendere, sono in ordine; poi divento veramente pazzo se lo spettacolo non va come dico io.

De Filippo proibiva le storie d’amore all’interno della compagnia.
Aveva ragione. (Urla)

C’è il però…
Fino a un certo punto: nei miei spettacoli si sono formate tante coppie, alcune poi sono arrivate al matrimonio.

D’istinto ha risposto “aveva ragione”.
Perché è un casino quando litigano in compagnia: magari c’è un scena d’amore e neanche si guardano in faccia.

Come reagisce?
Me la raccontano.
Non se ne accorge?
Vedo poco dei miei spettacoli; non vado neanche alla prima: soffro troppo. All’intervallo mi chiama sempre il mio aiuto e aggiorna

Cosa resterà di lei?
Spero niente. Non sono mica Socrate o Michelangelo. Sarò dimenticato come tutti; (ci pensa) mio nonno ha scritto tre opere, ha composto la musica per l’inaugurazione del Milite Ignoto, ha diretto i funerali della Duse. Eppure di lui è rimasto solo un busto a Tolentino.

Lei chi è?
Difficilissimo; (pausa) adesso sono un vecchietto che non smette di creare.

Vecchietto?
Una volta ho sentito spiegare da Sandra Milo: ‘La vecchiaia è il periodo più bello della vita, perché è l’ultimo. Ed è importante esserne coscienti’. Lo sottoscrivo.

© Musical.it

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