Monica Vitti è morta il 2 febbraio. Nata Maria Luisa Ceciarelli a Roma, il 3 novembre del 1931, aveva compiuto da qualche mese 90 anni. Attrice icona del cinema italiano, era assente dalle scene dal 2001,quando fu ricevuta al Quirinale per i David di Donatello. Musa di Michelangelo Antonioni, regina della commedia all’italiana al fianco di Alberto Sordi.
Monica Vitti, l’attrice che visse due volte. Per varie ragioni. Primo perché, la simpatica «ragazza con la pistola» molti anni fa ebbe il privilegio di leggere con un certo sorriso il proprio necrologio su Le Monde, storica gaffe del prestigioso quotidiano francese; secondo perché la sua vena artistica la portò non solo dal teatro al cabaret e al cinema, ma dalla tragedia al dramma e poi alla commedia, valorizzando personali risorse validissime di comunicabilità anche nell’incomunicabilità. E terzo perché Monica, all’anagrafe Maria Luisa Ceciarelli, nata a Roma il 3 novembre 1931, fuoco di spirito e voglia di comunicare, baciata dal dono della dialettica e dell’humour, visse dall’inizio degli anni Duemila in un lento decrescendo Monica Vitti, dovuto a una malattia che le aveva portato via il dono della comunicazione, una vera e tremenda pena del contrappasso. La malattia degenerativa di cui soffriva si può per lei considerare una nemesi storica contro quello che era il suo naturale charme dialogico, che le aveva permesso di passare dall’intellettuale che passeggiava coi libri di Joyce in borsetta alla commediante grottesca amata da tutti.
Molti chiedevano in questi anni: ma che fine ha fatto la Vitti? La verità era che l’attrice, colpita dal male che fa regredire allo stadio infantile, aveva cominciato a perdere la memoria, sempre assistita dal marito Roberto Russo che era stato fotografo di scena di molti suoi film e infine anche suo regista in finale di carriera. Le ultime volte Monica ricordava il passato, poco il presente; poi i legami si sono definitivamente scissi ed è entrata in un suo mondo chiuso, misterioso e nascosto, facendo uscire gli altri, compresa la sua adorata carriera e attraverso gli occhi con lei comunicava solo il marito.
In mezzo tra le milanesi Valeri e Melato, la romana Vitti tenne alta la bandiera della comicità al femminile. Entrandoci, come si è detto, da un ingresso laterale, quello della ragazza borghese da collegio, con famiglia che cordialmente la sconsigliava, e poi dell’attrice drammatica diplomata nel ’53 a pieni voti all’Accademia dopo un burrascoso inizio. Inizia subito in palcoscenico col maestro Tofano con cui recita Machiavelli, la tragedia greca, Brecht, passando poi al teatro milanese del Convegno di Enzo Ferrieri come Ofelia in un Amleto di Bacchelli e Bella di Meano. Ma subito entra in scena la sua doppia natura e con Bonucci si butta nel cabaret di Senza rete, poi in Sei storie da ridere diretta da Mondolfo, che la dirigerà anche nei Capricci di Marianna di De Musset, quindi una natura brillante di cui si accorse Franca Valeri scritturandola in tv per Le donne.
Intanto, mentre doppia Dorian Gray nel Grido, dopo aver fatto tanti doppiaggi anche con Fellini, e fa una particina nelle Dritte, conosce il grande Michelangelo Antonioni con cui scatta un colpo di fulmine sentimentale e artistico. Antonioni dirige per lei l’unica compagnia teatrale della sua vita mettendo in scena «Io sono una macchina fotografica» di Van Druten (alla radice di Cabaret) e Scandali segreti, poi ancora Ricorda con rabbia dell’arrabbiato Osborne con Giancarlo Sbragia, ma era un gruppo in anticipo sui tempi. Con Antonioni la Vitti entra diretta nella storia del cinema, diventa la bella, moderna musa bionda dell’incomunicabilità, anche tra polemiche: il successo di Cannes dell’Avventura li ripaga di tutto, la Francia arrivò prima di noi a intuire il genio di un film ancora oggi modernissimo.
La Vitti espresse benissimo con quel suo fisico belllo ma alternativo rispetto ai canoni, tutta la gamma controversa dell’infelicità, l’incapacità di amare e agire, l’essere o non essere del cuore. Famosa in tutto il mondo la trilogia dell’incomunicabilità di Antonioni, L’avventura, La notte e L’eclisse, dal 60 al 63, dove ama con molta fatica prima Ferzetti, poi Mastroianni e infine Delon, durante la vera eclissi di sole del 62: a queste inquietudini nevrotiche l’attrice regala una sottile sensibilità personale, una verità non replicabile. Finisce le ansie con Deserto rosso, Leone d’oro a Venezia, in cui il regista, con la complicità di Carlo Di Palma (che sarà un altro suo grande amore) reinventa la realtà di Ravenna con il colore, senza computer. Ed anche qui si soffre per il cuore: la battuta «mi fanno male i capelli» diventa ironica anche se la pronunciava uguale Rock Hudson in Il letto racconta.
Quando Michelangelo espatria per Blow up, anche la Vitti cambia registro e partner. Ri-scoperta dal quel gran rabdomante di Monicelli, che le affida i buffi estri vendicativi siciliani della Ragazza con la pistola, diventa, con quella sua voce roca un po’ così, l’attrice brillante più richiesta e spiritosa, con alle spalle un curriculum intellettuale che le permette ogni variazione, scorciatoia, sottinteso, messaggio in bottiglia. Inizia così una serie di titoli best seller: è in Dramma della gelosia di Scola, irresistibile triangolo politico amoroso con Mastroianni e Giannini, poi con Dino Risi nel one woman show Le donne sono fatte così, con Brass nel Disco volante, con Salce in Ti ho sposato per allegria dalla Ginzburg, nella pochade dell’Anitra all’arancia con Tognazzi, nella Tosca di Magni con Proietti e nel triangolo di Amori miei ed infine nei costumi e nella “mossa” di Ninì Tirabusciò. Monica diventa la moschettiera della commedia all’italiana. E Di Palma le regala, oltre a Mimì Bluette, la bellissima commedia neo realista Teresa la ladra con cui commuove mezza Italia e che rimase uno dei titoli preferiti dall’attrice.
La Vitti, dopo aver provato ogni cinema d’autore (dal Losey quasi a fumetti di Modesty Blaise allo Jancso di La pacifista e al Bunuel del F antasma della libertà), forma una strepitosa coppia comica nazional popolare con Alberto Sordi anche regista e partner con cui stabilisce un rapporto di fiducia. Ecco i titoli fortunati, la violenta storia coniugale di Amore mio aiutami!, i ricordi d’avanspettacolo di Polvere di stelle (adorabile soubrette anni 40: ‘ma n’do vai…se la banana non ce l’hai?), «Io so che tu sai che io so».
La carriera della Vitti va a gonfie vele, recita con tutti i nostri eroi, mandandoli spesso in tilt con le sue nevrosi comiche. E se con la trilogia di Antonioni aveva vinto ogni premio, le commedie brillanti, molte delle quali ad episodi come si usava allora – basti ricordare Alta infedeltà e Le coppie in cui recita con Jannacci, ma anche Confetti al pepe e poi Castello in Svezia girati in Francia – le regalano il consenso popolare, padrona com’era di una serie di meccanismi comici inesorabili.
Vincitrice di 3 Nastri e 5 David, la Vitti si permette qualche capriccio: recita in Flirt e Francesca è mia diretta dal suo compagno e poi affettuoso marito Roberto Russo e debutta lei stessa come regista in Scandalo segreto che va a Cannes, grazie alla conquistata stima francese. Nel mucchio da ricordare, con decrescente fortuna, Non ti conosco più dalla commedia di De Benedetti, Tango della gelosia di Steno, L’altra metà del cielo di Rossi con Celentano. Tornerà con Antonioni nel Mistero di Oberwald di Cocteau, barocco e tentativo tecnologico.
Il teatro non lo abbandona mai, rimane il suo primo e grande amore: nel ’64 affronta la parte bionda non facile di Marilyn Monroe in Dopo la caduta di Arthur Miller con Albertazzi e la regìa di Zeffirelli, ed è un gran successo. In finale di partita torna in scena con due commedie comiche, la versione femminile della Strana coppia di Neil Simon con la Falk e la regìa dell’amica Valeri e lo storico Prima pagina di Ben Hecht, giornalista d’assalto. Da vera e grande attrice a 360 gradi, la Vitti non snobba la Tv, che frequenta fin dagli anni 50 soprattutto con la prosa, partecipando alle Notti bianche dostoevskjiane e al Cilindro con Eduardo De Filippo, ma anche presentando il programma cine-omaggio Passione mia per i giovani del Centro Sperimentale, dove racconta amatissima la sua professione. Ed infine nel 95, anno in cui vince il Leone d’oro alla carriera a Venezia, parla di sé nei gustosi libri autobiografici Il letto è una rosa e Sette sottane, per poi sparire lentamente in un oblìo che né lei né il pubblico avrebbero meritato. (Fonte: corriere.it, di Maurizio Porro)
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