Negli ottant’anni di Gianni Morandi ci sono mille vite

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Scritto da: Redazione • 17 Dicembre 2024
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Negli ottant’anni di Gianni Morandi (Jacopone) ci passano almeno tre vite. Tipo: sapevate, per esempio, che la prima volta in cui si è cominciato a dire che fosse “finito” non era neanche trentenne? Erano gli inizi degli anni settanta, la stagione dei cantautori e dell’impegno politico, e la sua faccia da bravo ragazzo cronico, figlia di un mondo di Canzonissima, cover, beat generation e provincialismo prima di tutto culturale, da guardare come i rinascimentali guardavano il medioevo, era considerata fuori dal tempo, commerciale, falsa. Dimenticavano che nel 1966 aveva cantato C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones, inno antimilitarista diventato poi un evergreen, gesto di coraggio mica da poco: all’epoca, per i diktat di un paese moralista e “democristianizzato” fino all’osso, la Rai non poteva dire che quella stramaledetta canzone anti-Vietnam era in cima alle classifiche, e in trasmissione glissava.
Se i sessanta – e Celentano, e Bandiera gialla, e i Beatles, e il rock’n’roll – avevano inventato i giovani, Morandi, il futuro, eterno ragazzo, aveva comunque smesso di esserlo presto. Per fare capire l’ostilità a pelle: anni dopo, De Gregori gli farà causa in nome, diciamo, dell’oltraggio, per aver cantato la sua Buonanotte Fiorellino omettendo una strofa; solo molto più in là gli avrebbe chiesto scusa, ammettendo di non sapere “cosa gli fosse preso”.
Di padre calzolaio e madre casalinga, Morandi è figlio di un altro mondo: nasce in quella che allora era ancora la Repubblica di Salò, cresce tra i bambini prodigio delle varie Feste de l’Unità emiliane, in qualche modo si inventa un mestiere che sta per nascere. Cervello fino. Oggi diremmo popstar, negli Stati Uniti forse l’avrebbero già chiamato crooner, qui diventa “cantante di musica leggera”. Nonché subito presenza costante, e rassicurante, nella vita degli italiani, principalmente attraverso la televisione, che prima fa da veicolo alle varie Andavo a cento all’ora, Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte, In ginocchio da te e Occhi di ragazza, poi gli offre una scialuppa – ma davvero, piccoletta – con sceneggiati di poco conto, quanto la popolarità va a picco. Studia anche contrabbasso, passa anni duri, ma non perde mai la rotta. A riprenderlo per i capelli ci pensa l’amico Lucio Dalla, uno dei cantautori di cui sopra, ma siamo già a fine anni ottanta. Lo rilancia con il disco di coppia Dalla/Morandi, dove si toglie lo sfizio di cantare, tra le altre, Che cosa resterà di me, forse il suo pezzo migliore, scritto da Franco Battiato, in cui per la prima volta parla di un passato rosso e partigiano (dei genitori) che non aveva mai sbandierato, ma che dà tutta un’altra lettura alla sua musica. Ci arriviamo. Postilla anche qui: in Invito al viaggio, il concerto tributo a Battiato del 2021, Morandi sarà di gran lunga il migliore, con una versione da lacrime proprio di Che cosa resterà di me.
Perché Morandi è stato prima di tutto interprete, uno che ad andar bene si faceva cucire addosso le canzoni di altri, più spesso doveva prenderle da sé, sempre fuori dal processo creativo. E allora? E allora è un talento difficile da misurare e legittimare: tutti i grandi hanno avuto qualcosa con cui distinguersi nell’immaginario, lui no; ok, la voce pulita, ma insomma, non ha mica mai avuto, né cercato, l’aura di Mina, anzi ha più o meno sempre fatto le stesse canzoni. Come ha fatto a resistere tutti questi anni?
Sì perché, appunto, Morandi c’è sempre stato. Con Banane e lampone eccoci nel 1992, Apri tutte le porte – composta da Jovanotti, disco di platino, terzo posto al Sanremo dei trapper – è addirittura del 2022. In mezzo l’Ariston, ancora, da concorrente e conduttore, gli infiniti programmi tv, i tour nei teatri e nei palasport, perfino l’uso dei social un decennio avanti rispetto agli onnipresenti e ai venerati maestri di oggi. Nella sua carriera ci passano, anche, gli ottant’anni del nostro paese, le sue trasformazioni di costume, ma anche quel somigliare sempre a sé stesso. E dentro, appunto, Morandi: mai una parola fuori posto, mai una sopra le righe, mai un momento in cui venisse da pensare che fosse più bravo di qualcun altro in qualcosa, se non nel restare, mentre intorno scompaiono o invecchiano.
L’eterno ragazzo, sì: ma non si dice mai quanti scogli ha dovuto superare quel sorriso, per essere ancora qui; quanto, soprattutto, il suo approccio al mestiere sia in debito con l’attitudine operaia, umile, emiliana, che gli hanno passato i genitori. La chiave è stata questa. E la semplicità: prendere una canzone facile, cantarla bene. Hai detto niente. Perché alla fine Morandi, quello di cui nessuno può parlare male, è come pane e salame: la ricetta più facile del mondo, che si può complicare in cento modi, nemico degli intellettuali, ma nazional-popolare e che non passa mai di moda. A lui il merito, s’intende, di aver usato ingredienti di qualità. (Fonte: today.it – scritto da Patrizio Ruviglioni)

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