Lucio Dalla ne era convinto. «L’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale», cantava (il brano era «Disperato erotico stomp», del 1977). Mentre parla Flavio Montrucchio (Grease, Aladin), ormai un pilastro di Discovery – il conduttore con i suoi programmi è in onda su Real Time praticamente tutto l’anno, macinando ascolti degni delle reti generaliste -, le parole del grande cantautore sembrano un sottofondo. Torinese, 47 anni, è diventato famoso nel 2001 vincendo la seconda edizione del «Grande Fratello». Da quel momento la sua carriera non si è più fermata. Eppure, per lui quella normalità che suona spesso incompatibile con fama e successo, sembra essere rimasta una istintiva regola di vita. Sposato con la collega Alessia Mancini, papà di due figli, di 14 e 7 anni («Sono come gli animali migratori: mi riproduco ogni sette anni… in questo periodo infatti devo stare attento», scherza), passa con loro («Soprattutto con il più piccolo») buona parte del suo prezioso tempo libero. Dove? All’oratorio. «So che oggi suona come un’eccezione. In realtà – racconta – non ci vedo niente di straordinario. Mi piace che i miei figli, piuttosto che chiudersi in casa a giocare, frequentino l’oratorio perché è una dimensione bella, in cui incontri persone anche molto diverse da te e dove c’è sempre qualcosa da fare».
Lo sa bene anche lui, che non si limita ad accompagnare i figli, ma si ferma con loro lì, a dare una mano. «Passo del tempo a intrattenere i bambini, intendo anche quelli degli altri. Poi, di base, chiedo come posso rendermi utile. Di recente smistiamo e cataloghiamo i medicinali da far avere alle persone che ne hanno bisogno. Un lavoro di compattamento molto utile, che faccio volentieri ma senza sbandierarlo». Nonostante sia un impegno continuativo, non riesce a definirsi un volontario: «Offro il mio aiuto, ma fondamentalmente lo faccio perché mi piace tutto quello che ruota attorno alla condivisione. Mi piace che i miei figli vedano che è importante adattarsi e dare il proprio contributo. Lo spirito dell’oratorio, poi, è difficile oggi da trovare altrove e mi riporta con la mente a quei momenti di spensieratezza che vivevo da bambino».
Un passato che torna spesso a far capolino nella vita del presentatore, spesso in modo inatteso: «Rivedo mio padre nell’attaccamento alla campagna che è nato ultimamente in me. Sempre con i miei figli, ho iniziato a coltivare un orto: per me è importante che sappiano come nasce un finocchio o un cavolfiore. Quindi amo che vengano con me a comprare le piantine, che le facciamo crescere… certo, mi ricordo che quando ero piccolo e mio padre mi faceva fare queste cose io mi rompevo, ma alla fine il risultato di quell’insegnamento me lo sono ritrovato adesso. E oggi mi rendo conto che questi gesti molto normali sono piuttosto clamorosi».
Le capitava, da bambino, di protestare di fronte alle decisioni dei suoi genitori? «Certo. Ad esempio quando volevo andare al mare, o anche in città, o a sciare, mentre loro, nei nostri giorni liberi, sceglievano di andare a trovare il nonno in campagna. Il primo mezzo di trasporto che ho guidato è stato un trattore e oggi, quando andiamo dai miei, nel Monferrato, mi ritrovo a farlo guidare ai miei figli. Tutte cose da cui credevo di essermi allontanato ma che invece sono riemerse negli ultimi dieci, quindici anni».
Quando va all’oratorio, la vedono come Flavio Montrucchio, il conduttore tv? «No, per niente. C’è chi mi si avvicina per quello, ma mi piace molto sapere che io lì sono praticamente per tutti il papà di Orlando, non Montrucchio della tv. Io sto lì, gioco a calcio balilla, parlo con gli altri… mi sembra per qualche ora di vivere un po’ fuori tempo, con frequentazioni reali, vere». E lo stesso vale per i suoi figli: «Al momento incontrano anche tanti bambini dell’Ucraina. Il rischio è che altrimenti sentano parlare della guerra ma la cosa finisca lì. Incontrando questi bimbi, loro hanno modo di interagirci, di comprendere meglio le difficoltà senza che un dramma venga filtrato da quello schermo diabolico che è lo smartphone. Non è la stessa cosa toccare una realtà come quella con mano».
Un sentimento di inclusione che prevede anche nel suo programma, «Primo appuntamento»: se fino a qualche anno fa gli incontri al buio erano solo tra coppie molto tradizionali, ora si vedono persone decisamente diverse tra loro. «L’inclusione è una cosa che bisogna fare ma, possibilmente, senza parlarne, perché se parli nel dettaglio di una realtà già la stai rendendo diversa dalle altre. Noi da tempi non sospetti comprendiamo orientamenti sessuali e religiosi senza etichettamenti, così come non diamo attenzione a dati anagrafici o al colore della pelle. Nessuno ha uno spazio particolare, tutti i nostri concorrenti sono trattati nello stesso modo. E non c’è nemmeno nessuna velleità sociale: pensiamo solo sia il modo giusto di fare televisione». Una filosofia che comprende anche persone con handicap, «perché spesso non ci soffermiamo a pensare a come questo aspetto possa influire sulla vita amorosa delle persone, a quanta sofferenza ci possa essere dietro una malattia. Mostrarlo aiuta a riflettere, senza indugiare», ma comprendendo una parte della realtà spesso esclusa dalla narrazione televisiva. Concretezza, ancora una volta. E quella normalità che diventa, alla fine, qualcosa di eccezionale.
(Fonte: corriere.it, scritto da Chiara Maffioletti)
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