Dopo il grande successo ottenuto a Milano, dove ogni sera il pubblico ha tributato lunghi, calorosi e commossi applausi a tutto il cast, il musical "A Chorus Line" da martedì 12 febbraio approda a Roma, al Teatro Brancaccio.
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Il video dal Maurizio Costanzo Show
Quando è storia, è storia. "A CHORUS LINE", da quella leggendaria sera del 25 luglio 1975 in cui andò in scena al Public Theatre, dove 300 persone sedute sui 300 posti "off Broadway" si passarono subito parola, è diventato il re dei "musical". Non solo perché ha battuto tutti i record di gradimento e programmazione (trasferitosi subito "in" Broadway per merito dell’impresario shakespeariano Joseph Papp, è rimasto in scena, alla sua prima edizione allo Shubert Theatre, 15 anni fino al 28 aprile ’90, 6137 repliche), diventando nell’85 anche un film di Sir Richard Attenborough con Michael Douglas, ma perché ha rivoluzionato la tecnica, e, si può dire, la morale di questo genere di spettacolo che nasce direttamente dalla costola del teatro americano.
Il musical si è così creato sera per sera, adattandosi ai suoi protagonisti che sono mutati nel corso del tempo: giacché si tratta di teatro nel teatro, ovvero come un regista "manhattese" passa un pomeriggio di audizioni per scegliere il balletto di un nuovo spettacolo. Ragazzi e ragazze pronti a sgambettare sotto i riflettori traslocando da una città all’altra, col cuore protetto dalle insegne al neon (in americano li chiamano "gypsies", zingari) si "confessano" in palcoscenico sulla "chorus line", la linea bianca che delimita lo spazio del balletto di fila da quello delle star.
"A CHORUS LINE" è soprattutto un omaggio al teatro, all’etica del "si va in scena", dei sacrifici occulti che gli attori sostengono e dei traumi che vivono, perché ogni volta che si apre il sipario ciascuno porta alla ribalta un pezzo della propria vita. Nel musical probabilmente sapete come va a finire, qualcuno verrà scelto, qualcun altro no (tu, tu, tu, tu e gli altri a casa, la prossima volta, grazie), ma tutti, alla fine, come per magia, appariranno in lustrini e paillettes a dirci cantando "one", il motivo più orecchiabile dello show, che si tratta comunque di una "singular sensation".
Una singolare sensazione che prende anche il pubblico. Il musical infatti ci commuove ribaltando le classiche convinzioni del genere, che ha fatto i primi passi (vedi i film hollywoodiani degli anni ruggenti) proprio curiosando dietro le quinte, quando anonime "girls" uscivano tremanti in palcoscenico e tornavano in camerino "stelle", come ha sempre insegnato "Quarantaduesima Strada". Ma Michael Bennett, il regista che per primo mise in scena "A CHORUS LINE" non solo ha intuito un potenziale di attori, ma ha adeguato la grande trovata del testo di Kirkwood e Dante, ritmato dalle bellissime musiche di Marvin Hamlish, ai tempi interiori ed esteriori del teatro moderno. Poche scene, anzi nessuna, solo uno specchio sullo sfondo, ed un gioco "elettrico" che cambia continuamente voltaggio tra finzione e realtà.
Se insomma "Quarantaduesima Strada" raccontava i pettegolezzi dei camerini, "A CHORUS LINE" ha un modo di esprimersi netto, preciso, diverso, in cui ogni aspirante ballerino racconta, già esibendosi, come e perché si trova lì.
Ed ecco quindi brandelli di vita vissuta, ora amari, ora buffi, ora divertenti, come una seduta psicoanalitica cantata e ballata.
E dopo il verdetto del regista, il musical si impenna, sogna, e diventa per un attimo fuggente sfarzoso: il doppio sogno di un musical alla sera della prima. Lo spettacolo che ha vinto 9 Tony Awards ed il premio Pulitzer, ha rivoluzionato il musical, perché davvero, per la prima volta, adopera sullo stesso piano il testo, la musica, la coreografia ed il personale carisma degli attori, che diventano subito amici e nostri complici, portandoci per mano in una visita guidata tra illusioni e delusioni del teatro moltiplicati all’infinito dallo specchio. La simpatia sta nell’affiatamento che nasce sul palcoscenico, dove i nuovi talenti si fanno le ossa e magari utilizzano un poco di autobiografia. Perché il fascino di questo show appartiene all’eterno della domanda sul bisogno della finzione, quando la curva del teatro incontra, complice un refrain, quello della poesia.
Maurizio Porro (dalla prefazione del programma di sala dell’edizione 1990)