Degli incontri tra i Lui, non prevedibili arzigogolati casi umani, e le Lei, più intriganti e meno stereotipate del solito, racconta con cura Malika Ayane (Evita, Cats). Ansia da felicità (Rizzoli) è il suo primo libro. Un esordio che vale le sue canzoni più belle. Lo ha scritto e ancora fatica a crederci: «Ho anche parecchia fifa. Non so se ho fatto bene a svelare tante cose catturate nei miei taccuini».
Malika ha raccolto ingredienti spuri, per farli appassire in una ricca zuppa di casuali emotività, che da intruglio potenziale è poi venuta buonissima. In copertina c’è una tavola sbriciolata, con i bicchieri di vino e una cena arrivata al dessert. Di quelle che lei ha imparato a sparecchiare quando faceva la cameriera, prima che la sua voce densa e acuta accumulasse dischi di platino: «La prima indimenticabile regola era: portare via il pane; segnale propedeutico a far ordinare il dolce».
Ci sono parecchi drink in Ansia di felicità. Ottimo viatico al nostro incontro. Ignoravamo l’esistenza della vodka alla vaniglia. Mixata con succo della passione e champagne origina il Pornostar Martini, cocktail che Malika ordina in perfetto pendant con i suoi (ben calzati) tacchi alti a spillo. Completa l’appuntamento nella berlinese piazza Gendarmenmarkt, il fatto che siamo al Newton Bar, tempietto dedicato alle gigantesche nudità della fotografia di Helmut.
Cosa ci fa a Berlino?
«Io e Deutsche Bank condividiamo un mutuo da una decina di anni. Questa è la città dove voglio trasferirmi definitivamente. Sono venuta qui da piccola, ci sono tornata a 20 anni per cantare al festival Bread & Butter. Ho abitato nel fighetto Schöneberg, per un breve periodo a Prenzlauer Berg e ora non riesco a fare a meno della minestra di lenticchie che cucinano i ristoranti turchi di Kreuzberg. È casa, si vive bene e sono innamorata del posto».
In quanto tempo ha scritto il libro?
«Non mi sgridate: 40 giorni».
Non ci credo.
«Ho avuto anche il tempo di farlo leggere a una serie di amici bruti ed eterosessuali. Gente che non usa il gel dell’ecografo. Vanno giù piatti e ti dicono se è una rottura smielata. È andata bene».
Se è andata così vuol dire che era lì, pronto a essere messo nero su bianco. C’è un motivo?
«In un paio di occasioni ho preso e restituito l’anticipo di un libro a un editore. Non mi sentivo pronta. La biografia la puoi scrivere quando sei abbastanza vecchia. Se uno ha un’urgenza diversa, capisco, ma io no. Raccontare come sono diventata famosa e quanto sia difficile essere me, temo non sia arricchente per nessuno. Stoner di John Edward Willis oppure la Trilogia di Kent Haruf, ci insegnano che tutte le vite, anche quelle più ordinarie, sono meritevoli di un libro. Ma a me fa paura il voyerismo pettegolo e la banalizzazione del racconto di un’esistenza».
Quindi ha scritto di peripezie sentimentali?
«Le cose si sono messe insieme quando ormai ero alla fine. Questo lavoro non sapevo nemmeno io come lo volessi fare. Ho iniziato a scrivere dei racconti, la storia di Melina e poi un monologo e un dialogo. Nel libro ci sono anch’io. A Parigi, al bistrot Les Deux Magots sono quella che entra vanitosa e irruenta, ma anche quella che va in sbattimento».
Potrebbe essere anche la ragazza che s’innamora per strada di qualcuno appena visto?
«Sì, certo. Mi piaceva l’idea di sfaccettare il mio condominio interiore in varie personalità».
Però non è chiaro perché un libro proprio adesso.
«È un momento bello per prendermi una responsabilità».
Quando scrive?
«Nelle mattine e nelle notti di ritorno da teatro. A Roma, mentre partecipavo al musical Cats ho abitato in quella che affettuosamente chiamavo “la caverna”. Una di quelle case che ti accorgi che sono in un seminterrato solo dopo che ci hai portato dentro le valigie. Passavo dal camerino, al bar, alla casa. Poi aeroporti, hall di alberghi e scrivo meglio in spazi in cui posso curiosare nella vita degli altri. Giro col taccuino. Mi piace passare i pomeriggi a parlarmi attraverso la scrittura».
Si svuota o pensa?
«Io penso pure troppo. Mi faccio un sacco di menate. Quando il pensiero esce è come se si analizzasse da solo e trova il suo posto dentro la pagina o la canzone. Me ne alleggerisco però allo stesso tempo lo metto in circolo e si trasforma poi in un’altra cosa ancora. Quando sono in seduta dalla terapista, magari l’emotività prende il sopravvento. Ma piango più al cinema che dall’analista».
Cosa legge prima di scrivere?
«Mi piacciono tanto gli scrittori asciutti e brutali. Adoro Murakami che pur nella sua verbosità non è mai descrittivo in modo esasperato. Mi piace Hemingway: frasi brevi, pugni in faccia. La crudezza realista di Irvin Welch, nel raccontare cose terribili e brutte figure che tutti abbiamo fatto. Sono dei maestri che ti portano a elaborare una tua emotività derivata dalla lettura».
Racconti una brutta figura.
«Una piccola però, perché sono già abbastanza imbarazzata per il libro. Sono giovane, al concerto con la prima band, non mangio nulla e dal nervoso fumo una sigaretta dietro l’altra. Mi sento molto figa. Canto cover blues tradizionali e mi devo dare un tono. Arriva mia madre, viene sotto il palco e mi fa i gestacci per intimarmi di fumare meno. Volevo sprofondare. Ho capito che se vuoi fare la star non devi mai invitare i genitori».
Nel libro interpreta il pensiero femminile, ma anche quello maschile.
«La parte dei risvegli incazzati l’ho affrontata dal punto di vista femminile. Perché abitualmente ce la concediamo poco. Perché i modelli sono sempre la pasticciona o la glamorous. Invece, l’imbruttimento mattutino lo volevo analizzare in modo leggero, senza psicodramma. Le telefonate del giorno dopo la serata con le amiche, tra foto di filotti di bottiglie e messaggi con voci impastate. Niente di male. Quando lo raccontano i maschi diventano dei fighi, mentre le donne sono delle sceme, in fase addio al nubilato o reiette nell’angolo di un bar. Vado, mi siedo e mi godo i miei drink. Ho cercato di essere il meno moralista possibile. Non ti ricordi più chi sei e cosa hai fatto: va bene lo stesso».
È disciplinata?
«Molto. Anche nella musica. La scrittura è un furto che fai ad altro. E la cosa che è più facile da rubare è il tempo dedicato alla collettività. Quindi, non è stato male cancellare un po’ di appuntamenti dicendo: “Scusami, sono in ritardo sulle consegne”».
Che tipo di piacere le procura mettersi a tavolino?
«Scrivere è un po’ come performare, per una certa forma di intensità. Un senso che si trasforma in una cosa. Nella musica lo conoscevo. Ansia da felicità è anche un capitolo del libro. Lì analizzo La Ritournelle, un brano di Sébastien Tellier del 2004. Racconto della sincope, che spezza il tempo spostando l’attenzione su qualcosa di inaspettato, creando una sorta di affanno. È stato incredibile, perché davvero è accaduto che dopo averne scritto, un sabato mattina, ho incontrato nella sala colazione del mio stesso hotel Sébastien Tellier. Ho chiamato il mio amico Pacifico e gli ho detto che chiaramente una divinità di qualche tipo mi stava parlando».
Parliamo di uomini. Mi sembra di aver capito che quello che si avvicina di più all’ideale è il Raptor. Che significa?
«Sono anni che mischio alambicchi, ma, arrivata a enne convivenze e relazioni, temo che il Raptor sia un prodotto da laboratorio. È l’uomo della vita. È uno normale che capisce che cosa sei e va bene così. Il Raptor non se la mena. Non ti sta salvando, ma si fida e ti vede».
Invece il male assoluto è ovviamente Il Merda.
«Quello che “nel 1999 hai detto quella cosa” per fargli fare una brutta figura, perché in fondo tu lo consideri un coglione. E anche se tu gli hai spiegato, ogni volta che l’ha ritirata fuori, che non era così, non solo non ti perdona ma è sempre colpa tua. È quello che si toglie dalla responsabilità. Immaturo non è abbastanza, perché a quello che non ce la fa, gli vuoi bene. No, Il Merda è il genere che prende una bimba in braccio per saltare sulla scialuppa sul Titanic».
Ok. Ora è single?
«Le mie relazioni al quinto anno scoppiano. Ora sono single da due. Felice di avere il letto e l’armadio tutti per me».
Materialista?
«Oh, ma sono spazi vitali. Io sono cresciuta in 50 metri quadrati. La prima volta fuori casa dividevo la stanza con uno che meritava di essere aspirato dai Ghostbusters. E diceva a me che puzzavo di circolino, perché facevo la cameriera e mi fumavano addosso. Poi, con il padre di mia figlia Mia, casa piccola e un bambino, che non aiuta. Quando sono arrivata ad avere i miei archivi, le mie scarpiere, ho capito quanto amore ci vuole per condividere uno scaffale».
Ma se invece incontrasse qualcuno che sembra davvero attento alla sua felicità?
«Beh, me la faccio sotto. L’esperienza mi parla di fregatura clamorosa. A volte ci penso che trovare uno anche per non crepare sola e farsi trovare sbranata dai propri gatti, non sarebbe male. La mia formula è: cinismo 50%, disillusione 20%, aspettative 0. Mi accontento di un 30% di buona compagnia».
Non è moltissimo.
«Là fuori è una tragedia. Trovare il +1 è durissima. Mancano uomini rilassati. Sono tutti stressati dal raggiungere posizioni adeguate. Hanno padri che sono o ex-risolutori di problemi assoluti o capi-tribù con mogli che hanno fatto mille rinunce. Un modello che non esiste più. Poi se un uomo è di casa, lo bollano come mammo. Altri pensano di fare il baby-sitter e gli devi ricordare che si dice padre».
Ok, è una giungla. Come finirà allora?
«Nella comune di un riad, circondata dai miei amici gay, eleganti, musica bella, si mangia bene. L’ultimo cliché della diva. Canto per loro e mi vogliono bene».
Una volta l’ho sentita cantare La prima cosa bella al matrimonio di un’amica e mi sono commosso.
«Una canzone che ha bisogno di tutto l’amore del mondo. Perché può diventare banale e invece è pazzesca. La semplicità di quel Do, esageratamente maggiore, dice: eccomi. Proprio così, in questo momento della vita se qualcuno mi dicesse eccomi, allora…»
Mia sta per compiere 18 anni, lei 40. Come va?
«Lei sta facendo il quarto anno di liceo a Berlino. Sono certa di aver fatto un buon lavoro. Quaranta, sarà una botta. Mia invece ha una giovinezza che strilla la giusta pretesa a prendersi l’universo. Beh, ho 15 anni di carriera da musicista in cui sono riuscita a fare quello che volevo. A vivere fatiche senza compromessi e vergogne. Non mi lamento».
Contrariamente alle storie amorose c’è poco sesso nel suo libro.
«Tra una gran scopata e un’ora in più in sala prove? Ti rispondo che davvero deve essere una grande scopata. Altrimenti suono. Abbiamo talmente tanto sessualizzato tutto, che forse anche riscoprirsi nel “non fattibile” non è malissimo».
Terminata la lettura ho avvertito un senso di sospensione. Sbaglio?
«Ho un grosso problema con i finali. Le canzoni non ne hanno bisogno. Sono come un calendario dell’avvento, ti aprono porticine e nell’ascolto c’è una personalizzazione. Perché succede? Non c’è un motivo. E poi non sarebbe ansia, ma felicità».
(Fonte: corriere.it – di Giovanni Audiffredi)
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