È morta Valentina Cortese, una delle ultime divine del cinema italiano
Aveva 96 anni ed ha lavorato per tutti i più grandi registi, da Fellini a Bergman. Era nata il 1 di gennaio del 1923, caduta come un fiocco di neve sulla campagna intorno a Milano, come inizia la sua autobiografia, dove fu allevata da una famiglia contadina e imparò a portare annodato sul capo il foulard per proteggersi dal sole, moda che poi lanciò nei salotti mondani nel secondo tempo della sua vita. Valentina Cortese, sembra strano, ma non c’è più, ci mancheranno i suoi ritardi, i suoi affetti, le sue emicranie. Non ci sono più i suoi sorrisi in Cinemascope, la sua grazia nel saluto, i suoi racconti esclusivi di cinema e teatro, il suo ginocchio rovinato in una prova del “Gioco dei potenti” con Strehler, le sue cene eleganti davvero, il suo inebriante profumo di violetta e i compleanni nell’appartamento in Sant’Erasmo a Milano, arredato a sua immagine e somiglianza, dove le foto in cornici d’argento raccontavano chi era e chi era stata la padrona di casa, come nella deliziosa casa di Venezia arredata come il caffè Florian.
E le sue acconciature da zarina con pellicce fino ai piedi, anche in mesi tiepidi, non da tundra, i colbacchi come fosse sempre nel “Giardino dei ciliegi” di Cechov, il suo Giardino sotto veli bianchi, rimasto famoso per il genio innamorato di Strehler, il loro ultimo incontro artistico. E le toilettes magnificamente ingombranti di Valentino con cui arrivava puntuale il 7 dicembre alla prima della Scala nel palco con la Toscanini e poi in platea, ma anche agli ultimi recital di poesia dell’adorata Merini o Testori o quando fece dopo anni di rimandi la Eleonora Duse (dopo essere stata la Bernhardt in tv) diretta dal regista del cuore Filippo Crivelli, togliendosi perfino il foulard alla fine per mostrare quanti bei capelli avesse ai soliti sospettosi; o quando al Teatro Studio raccontò il libro della sua vita o al Piccolo recitò una lettera di addio alla Melato, seduta al centro della fila 10 nel posto dell’amato e per sempre rimpianto Strehler, ai cui storici funerali tutte le sue donne piangevano in coro come alla morte di Valentino.
Era l’ultima divina, si dice sempre così, ma in questo caso abbiamo le prove, è vero: divina – leggendarie liti e svenimenti per eccesso di tuberose in camerino per “Maria Stuarda” con la Falk – che sotto la scenografia dell’abito e del trucco nascondeva, diceva per comodità dato che il personaggio sofisticato funzionava, una donna generosa, sincera, straordinaria come sanno quelli che l’hanno conosciuta, amata, guardata negli occhi o su quella pelle da bambina. La sua vita è divisa in tre tempi, dall’infanzia campestre all’adolescenza ricca e metropolitana con i nonni, da cui scappò 15enne per seguire a Roma il primo grande amore della sua vita, il direttore d’orchestra Victor de Sabata, con cui ebbe una tumultuosa e appassionata relazione, intervallata da concerti e prime. Poi il cinema, che inizia sulle ginocchia di Ermete Zacconi nel “Bravo di Venezia” e in decine di altri titoli, fra cui “Nessuno torna indietro”, “La cena delle beffe” di Blasetti (fra le donne sedotte e abbandonate da Nazzari), diventando uno dei volti del regime, fidanzatina spesso lagnosa per amore, forse il “Primo amore” di Gallone, educata, modesta e molesta. Dopo la guerra è davvero brava in “Un americano in vacanza” di Zampa e “Roma città libera” di Pagliero e poi in un film del caro Dassin che “mi corteggiava e mi scriveva”. Una storia’? «Ma, chissà, non te lo dico».
Intanto aveva già messo piede in teatro, era fra le “Donne” della Boothe Luce e il “Tempo e la famiglia Conway” (ancora con Blasetti che l’aveva notata per primo), ma anche Mauriac e O’Neill, fra altolocati colleghi. Una carriera felice che la porterà a Hollywood, come la sua amica Valli, dove gira alcuni film con divi come Gregory Peck, ma anche lei, come Alida, romperà il contratto con la Fox di Darryl F. Zanuck disgustata, raccontava, dall’amoralità dell’ambiente e di cocktail parties troppo eccentrici, troppo whisky e troppe mani addosso. Sul set di “Ho paura di lui” (sul cui poster lei è Cortesa) si innamora e sposa Richard Basehart, da cui avrà il suo unico, adorato figlio Jackie e da cui si divide dopo qualche anno. Quando torna in Italia si ricomincia, con un film di Rascel, con “La contessa scalza” accanto a Bogart e Gardner e con “Le amiche” di Antonioni, che a tutto il ’55 è la parte migliore, avrà un Nastro d’argento. Valentina è l’unica ad esser scelta da tutti i maestri, bipartisan politicamente, socialmente, sessualmente, compresi Visconti (“Old times” di Pinter), gli amici Zeffirelli (Fratello Sole e Sorella Luna, Gesù) e Fellini di cui fu nel ’75 musa stravagante e barocca in “Giulietta degli spiriti”, indimenticabili acconciature di Gherardi.
Ma dal ’59 l’attrice sente inequivocabile il richiamo per il teatro e approda nel ’59 al Piccolo di Milano con “La congiura” di Prosperi, presto diventando la compagna di Strehler (terza impetuosa love story, prima del secondo matrimonio alto borghese con l’industriale Carlo DeAngeli). Con Strehler recita in spettacoli meravigliosi che hanno segnato la storia del teatro mondiale, da “Platonov e altri” di Cecov al “Gioco dei potenti”, straordinario collage scespiriano di 10 ore, dal classico “Arlecchino” di cui Valentia fu una delle Beatrici, alle due Giovanne d’Arco, quella di Brecht fra i macelli di Chicago e quella del Processo a Rouen di Anna Seghers, fino all’exploit memorabile di “Lulu” di Wedekind diretta da Patrice Chèreau. Non snobba la tv, sta benissimo in due sceneggiati di Fenoglio, è Gerda nei ”Buddenbrook” di Mann e ”I grandi camaleonti” di Zardi. Ed è adorabile nella “Granduchessa e i camerieri” con Franchi e Ingrassia, operetta di Garinei e Giovannini in cui fa rivivere il mito di Wanda Osiris, dopo aver sperimentato le stravaganze canore intellettuali di “Canzoni senza festival”, regìa di Crivelli ed aver recitato in spettacoli misti di danza con Carla Fracci, un’altra delle sue storiche care, adorate amiche.
Ma i capolavori strehleriani indimenticabili e conosciuti in tutto il mondo, in cui batteva forte il suo cuoricino liberty e Valentina fu davvero grande, furono il “Giardino” cecoviano sotto il tulle bianco, come un gioco di bambini ma già anche presagio di morte (’74) e “I giganti della montagna” di Pirandello, ’66, dove è l’eroica contessa Ilse che vuole portare l’arte ai nuovi e vecchi barbari, ma la carretta dei comici viene schiacciata, secondo una famosa invenzione, dal sipario di ferro. Ed infine due volte fu milanese purosangue, nel dialetto che amava e assaporava battuta per battuta: “L’eredità del Felis” di Illica e “El Nost Milan” di Bertolazzi, affresco di una città impietosa, fra la povera gente. Il cinema le presenta qualche buona occasione, l’”Assassinio di Trotzky” di Losey, “Quando muore una stella” di Aldrich, ma la parte che nessuno ha dimenticato è quella dell’attrice smemorata nel grande film al quadrato di “Effetto notte” di Truffaut che la portò a un passo dall’Oscar, che le fu poi dedicato dalla generosa amica e vincitrice Ingrid Bergman. Cara, cara, adorata… (Fonte: Corriere.it – Maurizio Porro)
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