IL MATTINO  - 17/03/2003

Pinocchio, il burattino del pop 


Andrea Spinelli 
Milano. Date a Saverio Marconi una storia e lui vi ci costruirà sopra un mondo incantato. Dategli la penna di Collodi e le musiche dei Pooh e trasformerà il tutto in una vera e propria macchina da guerra. Spenti i riflettori sull'anteprima con vip di «Pinocchio», l'impressione sedimentata dalle due ore e mezza di spettacolo è - colonna sonora a parte - quella di una corazzata teatral-musicale che lancia la sfida italiana al sacro regno del musical, il West End londinese di sir Andrew Lloyd Webber. 
Tutto quel che ruota attorno al burattino è kolossal: dall'imponente Teatro Diners Della Luna costruito di fronte al FilaForum di Assago, alla scenografia, dai costumi alle macchine teatrali che scandiscono la narrazione: una produzione miliardaria, collocabile sul piano di recenti e acclamatissimi allestimenti del West End come «Bombay dreams» o «Chitty chitty bang bang». I 50.000 biglietti già venduti alimentano nei produttori la speranza di mantenere lo spettacolo a Milano fin dopo Natale e magari anche di esportarlo in paesi come Spagna, Portogallo, Francia, Svizzera, Germania, Austria, Gran Bretagna, Cina e Sudamerica, con cui sono già in corso contatti. 
Forti dell'esperienza cinematografica di Benigni, Marconi e i Pooh nel loro «Pinocchio» hanno tentato quella modernizzazione della fiaba sfuggita al comico toscano, mostrando pochi imbarazzi davanti al frigorifero che troneggia nella cucina di mastro Geppetto o all'Ape Piaggio con cui un venditore ambulante mercanteggia le sue angurie dalle parti del Campo dei Miracoli. Insomma, un Pinocchio pop, sfacciatamente anni ’60, nonostante qualche ambientazione più rigorosamente 1880 come la casa di specchi della Fata Turchina. Il lavoro punta molto sui sentimenti, sulla difficoltà di essere (bravi) genitori, sull'adolescenza negata di un burattino a cui è precluso il diritto di crescere. E sono proprio questi conflitti del cuore a disegnare la trama psicologica di un racconto pronto a esplodere nel finale, in quel colloquio tra Pinocchio e la luna che ricorda da vicino quello di un altro eroe nasuto e romantico come Cyrano. 
Per inserire il concetto di famiglia nel percorso drammaturgico dello spettacolo, Marconi ritaglia uno spazio nella storia pure ad Angela, proiezione adulta della fata Turchina che Geppetto impalma per costruire una nuova famiglia. Angela era il nome della madre di Carlo Lorenzini, in arte Collodi, e sulla scena ha il volto di una Lena Biolcati in cerca di rilancio dopo gli esiti sanremesi degli anni ’80. Pinocchio ha invece la verve di Manuel Frattini (Gedeone nella versione italiana di «Sette spose per sette fratelli») mentre la fata è Arianna (ex testimonial italiano della Disney passata attraverso l’Ariston e «Il mago di Oz»). Napoletano il Geppetto di un Paolo Pignatelli («C’era una volta... Scugnizzi») maldestramente invecchiato. 
Sebbene rielaborate rispetto all’album dato alle stampe in autunno, a lasciare perplessi sono ancora una volta le musiche dei Pooh, soprattutto per la disinvoltura con cui (volontariamente o involontariamente) citano tutto il citabile, spaziando dal celeberrimo «Peter's Gunn theme» a «Bohemian rapsody» dei Queen al «Carrozzone» di Renato Zero, da Gianni Morandi alle Orme, dal Ricky Martin di «Galleggiando» («Annaspando vai a fondo e... poi son cozze amare») a un’Aretha Franklin formato Blues Brothers. Non è un caso, quindi, che ad uscire meglio siano le canzoni in cui Roby, Dodi, Stefano e Red rifanno se stessi, quelle un po' sdolcinate e autentiche, ma pure la «Piccola Katy» formato balera che irrompe nel sottofinale perché tutto è bene quel che finisce bene.