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Dal
"CORRIERE DELLA SERA " di martedì 4
dicembre 2001 Cinquanta attori sul palco,
32 cambi di scena, 15 canzoni: ieri a Roma lo
spettacolo ispirato dal film di Cattaneo <<FULL
MONTY>> ITALIANO, TRA STRIP E SINDACATO Debutta
il musical sui disoccupati: un tocco di
impegno sociale in più rispetto a Broadway di Maurizio Porro
ROMA - Italiani,
brava gente. E un po’ guardoni. Il musical
americano tratto da «Full Monty», best
seller a Broadway, ha debuttato ieri con gran
successo al Brancaccio prima che a Londra.
Impegna 50 persone in scena, è prodotto dalla
Wai e dalla Promnibus che, dopo «Francesco»,
è passata decisa dal sacro al profano. Pur
con epicentro non più nella Sheffield
thatcheriana ma nella meno arrabbiata Buffalo
di Clinton, i fatti sono quelli buffi e noti
del film di Peter Cattaneo che nel ’97 lanciò
la moda dello strip maschile: da allora si
spogliano operai, assessori, insegnanti e
giornalisti, sempre per cause di lavoro. In
scena, sei disoccupati militanti, umiliati e
offesi, tentano per una volta, invece del
corteo, la via del nudo integrale per
sopravvivere. Alla fine, solo per un attimo,
con accecante gioco di luci, cantano «Let it
go» e, belli o brutti, grassi o magri,
imbranati o disinvolti, si sfilano gli slip
rosso fuoco, coprendosi poi subito con i
cappelli: è l’attimino fuggente che tutti
aspettano e gli attori temono esplorando con
terrore l’espressione delle prime file. Uno
strip scherzoso, ironico, non palestrato,
niente Rocco Siffredi. Il testo di Terrence
McNally, autore di un dramma sulla Callas, è
psicologicamente vivace e socio-eroticamente
spiritoso, forse con un tocco di impegno
sindacale in più su quello newyorkese che
somigliava a una variazione dietro le quinte
del teatro nel teatro. I personaggi sono
simpaticamente popolari, l’amicizia virile
viene rinsaldata dalle canzoni (la divertente
«Big ass rock», il rock del grande sedere,
alleanza tra sfigati), sfumano un poco i
rapporti di famiglia, ma in compenso viene
offerta una gustosa pianista che accompagna le
prove, cui spettano un ottimo blues e le
battute più pepate, compiti che Miranda
Martino assolve con bella voce e spirito.
Sintonizzati tra i 32 cambi di scena della
vetrata multiuso di Paolo Tommasi, i ragazzi
del «Full Monty» (servizio completo, secondo
il breakfast del gen. Montgomery) ballano e
cantano con orchestra dal vivo, si dichiarano
amicizia eterna e si buttano sul romantico col
leit motiv «You rule my world». Si
interrogano sul perché della pancia, del
pudore e della vita, mentre gli ronzano
intorno 15 canzoni nate dal cuore: pop,
ballate, cha cha cha, swing, frutto degli
estri di David Yazbek, collaboratore del
Letterman show.
Non solo sederi, ma anche caratteri della
porta accanto: il 35enne diviso, in crisi e
con un ragazzino più maturo di lui (è Miki
Cadeddu, figlio nel «Medico in famiglia»);
il marito extra large e imbarazzato che ha
nascosto il licenziamento; il ragazzo mammone
che trova l’amore vero con l’amico in
perizoma, il superdotato, il padrone,
l’anziano che se la caverà benissimo, oltre
a una godibile lezione di danza e un ballo
geniale giocato come una partita a basket,
tutto di una furberia fuori dal comune, di cui
mantiene ogni plusvalore la Fox.
Il «Full Monty» italiano, che andrà poi a
Torino, Bologna, Trieste e Napoli e nel 2002 a
Milano, piacerà. Proietti gli regala una
vitalità interna spontanea, senza folklorismi,
di grande semplicità, sottintendendo agli
slip soprattutto la dignità: certi fattori
umani resistono a ogni latitudine. Ma la vera
carta vincente dello spettacolo è il gioco di
squadra dell’intero cast, che comprende
divertenti caratterizzazioni femminili.
Naturalmente la parte del leone la fanno
Giampiero Ingrassia e Rodolfo Laganà, eterna
coppia antitetica del magro e del grasso.
Tutta la compagnia dimostra una
particolarissima attenzione e misura nella
recitazione e una sintonia che, considerando
la macchinosità dello spettacolo, è promessa
di grande successo. Tale è infatti alla fine
il responso del pubblico con lunghe
acclamazioni a tutti gli interpreti e al
regista Proietti.
IL REGISTA PROIETTI: SIAMO STATI
INVASI DA ASPIRANTI SPOGLIARELLISTI
Dopo essere stato sfolgorante protagonista di musical
in «Alleluja, brava gente», Gigi Proietti ci
ritorna oggi, 32 anni dopo, come regista del
«Full Monty» in scena al Brancaccio di Roma
fino al 17 febbraio. Sedotto da cosa?
«Da una riduzione che non tradisce lo spirito
proletario del film, da un tema universale che
non è necessario rendere
"all’italiana", quello di sei
disoccupati che, con l’umiliazione della
perdita del lavoro e della dignità, scoprono
un modo nuovo di avvicinarsi al proprio corpo».
Insomma, prima dello strip c’è
dell’altro.
«Assolutamente. Non scherziamo mai sui
disoccupati, il nostro spettacolo cade in un
momento di grande agitazione nel mondo del
lavoro. A quelli in scena il peggio è già
successo. "Full Monty" è un musical
attuale e non di nostalgia».
Imposizioni dalla produzione Fox-d’essai,
che detiene i diritti mondiali?
«Solo la raccomandazione di puntare sulla
verità concreta, reale dei caratteri. Niente
burletta, tutti d’accordo».
Difficile trovare i volontari
spogliarellisti?
«Anzi, troppo facile. A parte gli attori,
un po’ pudichi, siamo stati invasi da
pretendenti al ruolo, almeno 1500 maschiacci
arrivati con l’ansia di spogliarsi tutti e
subito. Il maschio italiano è esibizionista,
non vede l’ora. Due li abbiamo scritturati».
Anni fa, se richiesto, lei avrebbe fatto il
«Full Monty»?
«Credo di no, anche se non sono male. Ma
è difficile, pensando ai tempi: saremmo
andati tutti in galera il giorno dopo».
Il comune senso del pudore ha fatto le
piroette dai tempi dello scandaloso «Hair»:
si è spogliata in scena la Kidman, al cinema
Rocco Siffredi si mostra nudo come mamma lo ha
strafatto, gli spot sono topless. Eppure le
signore pagano un sovrapprezzo di 25.000 lire
per le prime tre file «gold» per godersi un
attimo di strip integrale.
«E’ un desiderio di nudo diverso. Oggi
a spogliarsi non sono i professionisti
culturisti, ma gli uomini della porta accanto.
Un voyeurismo privato più eccitante nato dai
rotocalchi e in tv, come dimostra "Il
grande fratello", dove i ragazzi hanno
proprio fatto una parodia di "Full Monty"».
Da "LA STAMPA"
di mercoledì 5 dicembre 2001 Roma, festoso debutto per la
versione italiana, a cura di Proietti, del lungo musical basato sul film. Impeccabile il cast
"FULL MONTY",
SPOGLIARELLO ETERNO Il disoccupato britannico resta più divertente di
Masolino D'Amico
ROMA - Festoso
debutto di «The Full Monty», versione
italiana del musical americano basato sul
fortunatissimo film inglese. La storia è
rimasta la stessa - sei disoccupati maschi,
vittime di varie frustrazioni (un divorziato,
un ciccione che si sente brutto, un
rispettabile signore di mezza età che non osa
confessare alla moglie di essere sul lastrico,
un suicida fallito...), i quali per fare
quattrini ma anche come estremo atto
liberatorio preparano e quindi eseguono uno
spogliarello in una sala che normalmente offre
intrattenimenti di questo genere a un
sovreccitato pubblico di massaie. Nei vari
passaggi qualcosa è cambiato, a partire dalla
lunghezza: 91' la pellicola, 180' lo
spettacolo nel cavernoso spazio del
Brancaccio. Inoltre l'autore del testo, il
famoso commediografo Terrence McNally, ha
introdotto personaggi nuovi, in particolare
uno stripper di professione col cui numero la
serata ha inizio, e una pianista veterana e
beona che esce dal ritiro per partecipare
prima alle prove quindi al numero. Diciamo
subito che queste aggiunte offrono momenti più
che validi, anche grazie alla bravura degli
interpreti, il freddo biondino Nicola Paduano
(credo) affrontato dagli sfigati intrufolatisi
nei cessi normalmente per uomini del locale
quella sera riservato alle signore; e
l'energica Miranda Martino, che tra l'altro
sfrutta da par suo il bel blues concessole dal
compositore David Yazbek. Secondo le
tradizioni del musical, ci si sarebbe potuti
aspettare che arricchimenti come questi
compensassero la perdita di approfondimenti e
spessori: il declamato imposto dai
palcoscenici di grandi dimensioni, lo spazio
da lasciare alle canzoni, di solito fanno sì
che le trame vengano semplificate al massimo.
Invece McNally non rinuncia a tentare di
raccontare ogni cosa, e benché non ci siano
punti particolarmente deboli da segnalare
subito alle forbici, per tener dietro al
privato di molti il tutto finisce per
dilatarsi e perdere mordente. Quando siamo
ormai in vista della conclusione, per esempio,
c'è il funerale di una madre della cui
esistenza francamente ci eravamo dimenticati.
Inoltre, ed è l'ultima riserva, l'umorismo
della situazione si fondava, in origine, sulla
particolare
pruderie
di proletari britannici di provincia, che
normalmente piuttosto che farsi vedere in
déshabillé
, morirebbero. Mentre qui sono americani (di
Buffalo), già forse più disinibiti; e
parlano e si muovono come italiani, talvolta
addirittura con inflessione romanesca. Questo
rende la materia del contendere meno
drammatica, soprattutto avendo noi tutto quel
tempo per rifletterci sopra. Ciò premesso,
non restano che elogi per l'allestimento
curato da Gigi Proietti, a partire dalla
scelta del cast, perfetto in ogni componente.
Brillano i due principali, Giampiero Ingrassia
come l'ideatore e trascinatore dell'impresa,
un nevrotico che dietro l'aggressività cela
una intima insicurezza; e Rodolfo Laganà, un
comico nato di quelli che sanno aspettare e
non sbagliano mai l'inserimento, come l'amico
pacioso che si arrovella sul proprio pancione.
Completano il gruppo Riccardo Bàrbera,
Massimo Del Rio, Gabriele Foschi e Timothy
Martin. Impeccabile poi il ragazzino Miki
Cadeddu, e lodevolissimo il coro delle donne -
tra loro Barbara Bengala, Stefania Caracciolo,
Jacqueline Maiello-Ferry - che scendono in
prima fila di platea per fungere anche da
scatenatissime fans. L'ingegnosa scenografia
di Paolo Tommasi è un androne di mattoni
scuri che suggerisce una fabbrica, in cui
molto agilmente pannelli scorrevoli creano una
quantità di ambienti sempre mirabilmente
illuminati da Marco Carosi; i costumi di
Susanna Proietti sono spiritosi: le
accettabili musiche, che bellezza, sono
suonate dal vivo. Da ultimo i sei si tolgono
come promesso anche il perizoma (non credo però
anche la cassetta dell'amplificazione), ma dei
fari abbaglianti impediscono di scorgere i
dettagli. Trionfo, repliche a Roma fino al 17
febbraio.
«Ai
miei tempi ci avrebbero arrestati» Gigi:
A fare lo strip-tease i ragazzi non provano
nessuna vergogna, nemmeno durante i provini di Simonetta Robiony
ROMA -
L´idea
di portare in Italia il musical americano
ispirato al film «Full Monty» non è di Gigi
Proietti ma Proietti l´ha fatta sua
volentieri perché gli pareva uno spettacolo
anomalo nel suo genere. Lo raccontava, con un
filo di voce e una gran voglia di fumare una
sigaretta, prima del debutto: «M´è piaciuto
perché è un musical che non ammette
macchiette ma caratteri autentici, niente
sdolcinatezze amorose ma la durezza di
ritrovarsi senza un lavoro, niente equivoci
borghesi con porte che s´aprono e si chiudono
ma le grige pareti di una fabbrica chiusa per
fallimento».
E non
l´ha preoccupata, almeno un poco, portare in
scena uno spettacolo che parla di
disoccupazione proprio da noi, in Italia, che
da questa piaga siamo afflitti da anni?
«Perché
mai? A me preoccupa la situazione italiana,
quella politica e quella sociale, mica lo
spettacolo. E poi, come diciamo noi attori,
tutto fa Broadway».
Cosa
le hanno chiesto gli americani prima di cedere
a voi i diritti?
«Di
essere fedeli allo spirito del musical che poi
è quello del film, uno dei massimi successi
cinematografici degli ultimi tempi. E io ho
cercato con la mia regia di rispettare i loro
desideri accentuando l´aspetto naturalistico,
quotidiano dei personaggi, anche con un
linguaggio che, senza essere dialettale, è
comunque più sporco dell´italiano classico».
Dunque Gigi Proietti è tornato al musical:
aveva debuttato come interprete in «Alleluja,
brava gente», torna adesso come regista on «Full
Monty». Rispetto al film l´azione è
trasportata dalla tacheriana Sheffield alla
Buffalo di Clinton e quindi toni più
edulcorati ma storia identica e identico nudo
totale, come da promessa, che per un gioco di
luci, però, finisce per essere invisibile,
anche al pubblico delle prime file che ha
pagato 25 mila lire in più nella speranza di
poter godersi meglio lo spogliarello finale.
E´
stato difficile convincere gli attori a
buttar via il microscopico slip rosso nascosto
sotto la mutanda?
«Nient´affatto:
sapevano che sarebbe stato solo per un attimo.
Piuttosto mi ha meravigliato trovare, durante
le selezioni, tanti ragazzi disposti a
spogliarsi senza che neanche glielo
chiedessimo. E´ segno che i tempi sono
cambiati».
Se
a lei per esordire glielo avessero chiesto l´avrebbe
fatto?
«Non
lo so. All´epoca mia non si usava: ci
avrebbero arrestati».
Dei
2000 che vi hanno scritto per prender parte a
questo «Full Monty» ne avete scelti solo
due: non sono pochi?
«Questo
è uno spettacolo complessissimo che coinvolge
150 persone tra cui 21 attori che devono
cantare, ballare, recitare. Per trovarne 4 all´altezza
forse ne avremnmo dovuti esaminare quattro
mila».
Tre
ore compreso l´intervallo non è eccessivo?
«No,
è normale per un teatro con musica. E poi, se
questo è lungo, che dire delle cose di
Ronconi?».
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