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RAFFAELE PAGANINI: IL MESTIERE DELLA DANZA

Raffaele Paganini, una Star con il dono dell’umiltà: da étoile del balletto classico a divo del musical, senza mai tradire se stesso e sempre in cerca di nuove prove da superare,con caparbietà e “disciplina”

Raffaele PaganiniÈ sempre difficile raccontare una Star, ancora più complicato capire prima e spiegare poi quelle qualità che ne fanno una Star; infine è ancor più difficile farla parlare, la Star, perché regolarmente le sue risposte vanno tarate o nel senso di una esibita modestia o di un narcisismo inarrestabile. Premesso questo, e premesso che Raffaele Paganini è una Star, proviamo a raccontarlo e a farlo parlare. Diciamo subito che il Nostro sembra appartenere al gruppo dei “modesti”. Invece dopo poche frasi scopri che non è modesto ma umile (il che è ben altra cosa!), pur essendo cosciente delle sue qualità e del suo successo. A suo onore non finge che il successo lo imbarazzi o non gli piaccia, tutt’altro! Sorride contento quando ne parla, idem quando gli si dice che è una Star.
Raffaele Paganini nasce ballerino. È così? “Forse destinato a diventarlo.... – dice – il balletto è sempre stato intorno a me, come la musica del resto, e il canto. Mio padre essendo ballerino e mia madre cantante lirica, noi ragazzi ci siamo sempre trovati circondati. Naturalmente da bambini, fra le due tendenze, si privilegiava la danza, probabilmente solo perché più fisica, sicché mia madre ci bloccava accanto al pianoforte e cercava di inculcarci certi principi e sopra tutto impostarci la voce per il canto... si parlava molto di uso del diaframma, di maschera e di emissione. All’epoca, inutile dirlo, mi annoiavo, più tardi tutto questo è riaffiorato ed è diventato molto utile. All’epoca, è evidente, non solo non avrei mai immaginato un futuro in cui avrei cantato, ma nemmeno che sarei diventato un ballerino. Mio padre, dunque, milanese, lavorava alla Scala, aveva avuto anche qualche bel ruolo, e amava appassionatamente il suo lavoro; due mie sorelle, maggiori, studiavano alla Scala e quando tornavano a casa ci insegnavano quello che avevano appreso. In realtà ho cominciato abbastanza tardi, a quattordici anni e mezzo, spinto, no praticamente costretto, da mio padre, ed è andata piuttosto bene...”.
Non dice, Raffaele Paganini, come pressoché immediatamente, dalle sue prime apparizioni, la carriera sia stata tutta in salita, e in salita abbastanza vertiginosa. Aiutato da una proporzione muscolare e da un perfetto rapporto altezza/peso/potenza, il giovane Paganini si trova ad affrontare sorridendo i ruoli più difficili del balletto classico e, sono le sue parole, “con poca o relativa fatica”. Aiutato da un carattere naturalmente propenso alla disciplina, quella che per molti è l’atroce routine del ballerino (studi, diete, esercizi, continuo sforzo di superare i propri limiti) si rivela per lui abbastanza piacevole e anche non tanto faticosa.
A 14 anni, abbiamo detto, inizia gli studi all’Opera di Roma, a 18 è già entrato nel corpo di ballo ed è già solista: in breve tempo diventerà un’étoile. Tra la fine degli Anni Settanta e l’inizio degli Ottanta un ciclone Paganini si abbatte sui più grandi teatri d’Opera e di Balletto del mondo, e il nostro balla pressoché dovunque (“Qualche volta svegliandomi la mattina, o entrando in sala prove, mi sorprendevo a chiedermi in che città, in che teatro fossi...”) conquistandosi la stima e l’ammirazione dei colleghi maggiori, Nureyev lo apprezzava molto, tanto per fare un esempio, e ai grandi ruoli del balletto romantico comincia ad affiancare certe apparizioni televisive che magari hanno scandalizzato i puristi bacchettoni, ma che gli hanno conquistato una popolarità incancellabile. Quindi, apparizioni in giro per il mondo come star del balletto classico, e partecipazioni in TV a spettacoli che i critici sopracciliosi bollano di “nazional/popolari” senza rendersi conto di rinnegare, con questa parola pronunciata con disprezzo, tutto lo spirito del fare spettacolo, del fare musica.
Nei primissimi Anni Novanta Raffaele Paganini incontra il Musical e come spesso accade per i grandi amori l’inizio è appena un incontro casuale. Una grande cantante italiana di Jazz, Rossana Casale, ha voglia di cambiare, di provarsi in qualche altro campo e propone a Paganini uno spettacolo in cui lei canterà e lui ballerà. Siamo delle parti della famosa fra se “Che ne dici? Mettiamo su uno spettacolo?” ma i risultati non sono quelli che si vedono nei film di Hollywood a conclusione di un tale progetto. Un americano a Parigi, dove il titolo mutuato dal film omonimo, serve da traino a un pastone che rievoca la storia del film, allinea fra le più belle composizioni di Gerswhin in una gran confusione, che peraltro, contro ogni logica, ha successo. C’è da dire che i tre interpreti sono in vari modi strepitosi (a Paganini e alla Casale si è aggiunto l’italo argentino Ruben Celiberti). La Casale affronta le canzoni di Gerswhin e le fa sue con mirabile slancio, Celiberti sa fare tutto  (cantare, ballare, acrobazie, pattinaggio).Paganini eccelle, come al solito, nelle parti di balletto, e affronta il resto con promettente buona volontà, sorriso e umiltà e irresistibile simpatia. Risultato, ancora una volta, piace moltissimo. A questa esperienza si deve però l’incontro che si rivelerà decisivo per la sua successiva tranche di carriera: quello con Saverio Marconi e con un vero spettacolo di Musical. Sulle orme (e che orme!) di Gene Kelly, il Nostro affronta, nel ruolo del protagonista, Cantando sotto la pioggia: tanto per cambiare, sarà un trionfo. “Quando sono cominciate le prove – racconta Paganini –  ho cominciato a capire di che si trattava e contestualmente ho cominciato ad avere paura, tale e quale a quando affrontavo per la prima volta i grandi ruoli del balletto classico. Però avevo incontrato il VERO, la verità, la mia verità, probabilmente... Facevo qualcosa di più oltre la danza, e imparavo come si fa a farlo. Non sapevo... Parlare in scena, sostanzialmente, era una novità assoluta per me. Era nuovo, era eccitante, ma bisognava saperlo fare. E così, ancora una volta quella famosa disciplina che presiede alla vita e al lavoro dei ballerini mi è stata utilissima, ho studiato, ho provato, ho lavorato, e ci sono riuscito, almeno spero...”.
E in effetti, ci racconterà poco dopo, che quando è tornato al balletto classico per la prima volta dopo l’esperienza del Musical, si è sentito imbavagliato, ho vissuto il silenzio della danza tradizionale come una limitazione. Perché naturalmente Paganini non ha certo abbandonato il Balletto, si divide tra questo e la Commedia Musicale: “Attualmente il mio anno di lavoro è diviso più o meno così – dice –: sei/sette mesi di Musical, cinque/sei mesi di danza; “Zorba il Greco”, una “Carmen” di Luigi Martelletta, uno spettacolo di “Tanghi” di Piazzolla. Non faccio più il repertorio romantico. Ho avuto la fortuna di un’estrema facilità della danza, e avrei potuto, imbrogliando un po’ (ma sopra tutto me stesso) diventare un vecchio signore della danza (– sono parole sue – ), comodamente amato, coccolato e corteggiato. Ho scelto la cosa più difficile, cioè continuare a imparare... Qualcuno mi insegnava (– Marconi –), cos’era il Musical e nel frattempo io incontravo dei professionisti, dei grandi professionisti, che venivano da esperienze diverse o addirittura molto diverse dalle mie. Lavorando in “Cantando sotto la pioggia” mi sono innamorato. Mi sono innamorato del Musical. La danza era un vecchio matrimonio. E io, come il più fortunato dei maschietti, ho potuto dividermi tra il vecchio e il nuovo amore... Ho avuto anche paura, ogni tanto. Ma è una cosa salutare nel nostro lavoro. Per esempio, al momento della “prima” al Teatro Sistina a Roma, al momento di entrare in scena ho avuto un trac come  non mai, come non mi succedeva da molti anni. Ma anche lì, si impara a superarlo, che lo si deve superare. E così ho continuato ed è arrivato “Sette spose per sette fratelli” e un personaggio, Adamo, che mi ha fatto persino ritrovare certe verità negative mie, certi lati del mio carattere che francamente non mi piacciono. Ho avuto dieci fratelli e in “Sette spose” c’era addirittura in scena uno di questi fratelli anche lui ballerino, ma lui non era uno dei miei fratelli nella finzione... Insomma, a parte le verità negative, Adamo è un personaggio che amo; lo spettacolo è stato replicato infinite volte ma in realtà in non sono affatto stanco di recitarlo...”.
E poi è arrivato Dance!... “Per la prima volta in un Musical hanno scritto qualcosa espressamente per me, un personaggio che per certi versi mi somiglia, un personaggio che nella finzione esercita lo stesso mestiere che faccio io nella realtà: un ballerino classico... c’è un po’ di me in questo Dick. E ancora una volta tutto è stato facile: il canto (per il quale ho avuto dubbi e timori) risolto dall’estrema disponibilità e dall’inventiva di Gianluca Cucchiara che mi ha scritto, se così si può dire, addosso le canzoni; il balletto, che è stato coreografato da Mauro Bigonzetti con il quale siamo stati compagni di scuola nell’infanzia e compagni di corso all’Opera... Insomma, nessuno sforzo, solo la disciplina del lavoro”.
Quante volte, durante questa conversazione Raffaele Paganini ha usato la parola disciplina? Credo molte, moltissime. Come mai? È la ormai molto sottolineata disciplina del ballerino?
“No – dice Raffaele – È la disciplina che mi viene dalla famiglia d’origine. Undici ragazzi, sei maschi e cinque femmine, un padre severo, orari precisi e inderogabili, silenzio a tavola (anche perché se no non sarebbe riuscito a mantenere la disciplina), e poi in pochi anni tutti hanno preso la loro strada e sono andati via. Mio padre si è un po’ addolcito con gli ultimi due, i più giovani. E però, anche allora, parlando della danza, non faceva tante fantasie. “È un mestiere – diceva – se lo imparate bene, domani vi darà da mangiare”.

 

 

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